Ricorso per il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato; Nei confronti della Regione Friuli-Venezia Giulia, in persona del suo presidente della giunta, avverso la legge regionale 11 dicembre 2003, n. 22, intitolata «Divieto di sanatoria eccezionale delle opere abusive», pubblicata nel Boll. uff. n. 52 del 24 dicembre 2003. La determinazione di proposizione del presente ricorso e' stata approvata dal Consiglio dei ministri nella riunione del 13 febbraio 2004 (si depositera' estratto del relativo verbale). La Regione Friuli-Venezia Giulia ha proposto una prima controversia di legittimita' costituzionale nei riguardi di taluni commi, puntualmente elencati, dell'art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269 (reg. ric. n. 89 del 2003) ed una seconda similare controversia nei riguardi dei medesimi commi dello stesso art. 32, come risultato dalla conversione nella legge 24 novembre 2003, n. 326. Con la legge ora in esame la Regione ha disposto nell'art. 1 al comma 1 che «non e' ammessa la sanatoria delle opere edilizie realizzate in assenza dei necessari titoli abilitativi previsti ovvero in difformita' o con variazioni essenziali rispetto a questi ultimi»; e al comma 2 periodo primo che «ai fini di consentire l'oblazione penale degli illeciti edilizi (sanzionati penalmente) la domanda di definizione di tali illeciti presentata dopo il 2 ottobre 2003 secondo le modalita' previste da disposizioni statali, non sospende il procedimento per le sanzioni amministrative» (tra queste comprese - parrebbe - la demolizione e la acquisizione gratuita di fabbricato e suolo). La portata dell'art. 1, comma 1, oltremodo - anzi fin troppo - ampia secondo la «lettera» della disposizione, parrebbe delimitata solo dall'inciso «salva la procedura prevista dall'articolo stesso», ossia prevista dall'art. 108 della legge reg. 19 novembne 1991, n. 52, e successive modificazioni, contenuto nell'art. 2 della legge in esame. Diverso discorso dovrebbe farsi se il comma 1 si collegasse unicamente con gli artt. 101, 102 e (forse) 103 della citata legge regionale del 1991. Tale legge, malgrado le modificazioni ad essa apportate, sembrerebbe un po' «datata», e nel complesso non ancora adeguata all'evoluzione nel corso dell'ultimo decennio, della normativa statale in argomento, normativa raccolta nel testo unico d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380; il che e' implicitamente riconosciuto dalla legge in esame nella quale non si parla di «avvenuto adeguamento della disciplina regionale» (come invece nella legge Toscana 4 dicembre 2003, n. 55). Per di piu', pare sussistere anche qualche difficolta' d'ordine lessicale. L'anzidetto art. 1, comma 2, prevede, nel terzo periodo, un «certificato di definizione dell'illecito edilizio», al quale «equivale» il decorso di 24 mesi senza l'adozione di un provvedimento negativo del Comune. Non e' chiaro, per il momento, se tale certificato (o l'equivalente «silenzio») sia equiparabile al «titolo abilitativo edilizio in sanatoria» previsto dall'art. 32, comma 37, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito nella legge 24 novembre 2003, n. 326, e comunque sostituisca o meno detto titolo abilitativo. L'ottavo motivo del menzionato ricorso reg. ric. n. 89 del 2003 indurrebbe a ritenere che il legislatore regionale abbia inteso, attraverso la previsione del certificato, sminuire l'effetto giuridico del comportamento silenzioso del comune. Sul punto qualche chiarimento potrebbe essere utile. Comunque, la legge in esame, per quanto significato dalla «lettera di essa», appare percorsa da qualche intima contraddizione: da un lato si proclama «non e' ammessa la sanatoria», d'altro lato si apprestano strumenti perche' una sanatoria ovviamente diversa da (e piu' ampia di) quella prevista «a regime» dal citato art. 108 possa operare. Peraltro, le parole «ai fini di consentire l'oblazione penale» (in apertura del citato comma 2) parrebbero destinate a rimanere prive di concreta effettivita' qualora il «non e' ammessa» contenute nel comma 1 superasse il vaglio di legittimita' costituzionale per non essersi ravvisata lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento penale»; competenza questa esclusiva per l'art. 117, comma secondo, lettera L, Cost. e non inclusa tra le materie «elencate» nello Statuto speciale legge cost. 31 gennaio 1963, n. 1. Competenza legislativa che il legislatore statale ha utilizzato nel produrre quelle norme sull'oblazione che costituiscono il fulcro delle disposizioni che si vorrebbero non applicabili, e che il legislatore regionale solo apparentemente salvaguarda. Posto che la materia «ordinamento penale» e' di esclusiva competenza statale, la sottrazione dal territonio nazionale del territorio di una o piu' regioni introduce disuguaglianze (art. 3 Cost.) non legittimate dal riconoscimento in Costituzione delle autonomie regionali. Queste non possono condurre a discipline diversificate nell'ambito delle materie riservate allo Stato. Non pane che fatti identici (ad esempio, edificazioni in assenza di permesso di costruire) siano repressi penalmente in una Regione, e non repressi perche' sanati «per condono» in altre regioni. In questo quadro, la legge regionale in esame appare, oltre che irriguardosa dell'art. 117, comma secondo, lettena L, Cost. e lesiva dell'art. 3 Cost., anche contrastante con l'art. 4 dello statuto speciale, con gli artt. 81 e 119 Cost., e persino con gli artt. 51, 127, comma secondo, e 134 Cost. La legge in esame evoca l'art. 4 dello statuto speciale, ove pero' alla competenza legislativa cosiddetta primaria della Regione sono posti limiti confrontabili con (anche se minoni di) quelli posti dal novellato art. 117, terzo comma, Cost. alla competenza legislativa concorrente. Sarebbe erroneo assimilare la competenza ex art. 4 citato ad una competenza esclusiva; e nessuna modifica discende, per quanto qui interessa, dall'art. 10 della legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3. Codesta Corte ha insegnato che spetta tuttora allo Stato - anche per le evidenti e plurime connessioni con la materia «ordinamento civile» (art. 117, comma secondo, lettera L, Cost.) - produrre la disciplina normativa in tema di titoli abilitativi edilizi. In questo ambito deve collocarsi pure la previsione di titoli abilitativi non ordinari, quali quelli per sanatoria non «a regime», specie se tale previsione si salda con (ed e' integrata da) la prefigurazione di programmi di riqualificazione urbanistico-edilizia. Considerato che gli introiti attesi dalle oblazioni sono stati inseriti nella finanziaria 2004 dello Stato (legge 24 dicembre 2003, n. 350), impedire l'applicazione nel territorio di una Regione delle disposizioni statali contenute in commi dell'art. 32 citato concreta una ingerenza nella formazione del bilancio annuale dello Stato e quindi una lesione di quella «autonomia finanziania» che anche, ed anzitutto, allo Stato deve essene garantita, una compressione della competenza legislativa per il «coordinamento della finanza pubblica e dei sistemi tributari», una sottrazione di risorse destinate alla copertura (art. 81 Cost.) di spese pubbliche approvate dal Parlamento, e - da ultimo - una rottura del vincolo dato dal patto di stabilita' concordato a livello di Unione europea. L'art. 119 Cost. e' qui evocato anche perche' essenziale dovere costituzionale dello Stato e' assicurare a se stesso ed agli enti «a finanza derivata» le risorse occorrenti: tale dovere e' talmente prioritario e fondamentale da aver reso superflua l'esplicita indicazione in Costituzione dei modi e dei mezzi consentiti per farvi fronte; significativa e' l'assenza nell'art. 119 Cost. di una esplicita garanzia di risorse proprie anche per lo Stato. La Regione la quale ostacoli mediante propria legge una manovra di linanza pubblica statale dovrebbe farsi carico di assicurare altrimenti l'invarianza del «livello massimo del saldo netto da finanziare» (art. 1, comma 1 della legge finanziaria citata), ad esempio rinunciando ad apporti di finanza derivata dallo Stato. Da ultimo, occorre rilevare - e trattasi di argomento assorbente - che ai legislatori regionali non puo' essere consentito di produrre norme meramante demolitorie e «di reazione», le quali statuiscano la non applicazione nel territorio regionale di disposizioni poc'anzi prodotte dallo Stato. Iniziative siffatte possono pregiudicare l'unita' della Repubblica (art. 5 Cost. ) e comunque concretano una sosta di anomala «autodichia». L'ordinamento costituzionale (ora art. 127, comma secondo, Cost.) riconosce ad ogni Regione la facolta' di sottoporre a codesta Corte le disposizioni statali che reputa affette da illegittimita' costituzionale, e cosi' esclude che il potere legislativo regionale possa - grazie alla agevolmente realizzabile rapidita' della produzione legislativa ad opera dei consigli regionali ed alla soppressione dell'istituto del rinvio governativo, e facendo leva sulla successione delle leggi nel tempo - essere utilizzato per contrastare l'applicazione di dette disposizioni statali (non rileva se in assenza o in pendenza del ricorso della Regione). Quest'ultima considerazione appare di particolare importanza per il sereno ed equilibrato esplicarsi dei poteri legislativi dello Stato e delle autonomie. Si confida in un insegnamento di codesta Corte, il quale tenga conto anche dell'esigenza di salvaguardare appieno l'autorita' del Parlamento nazionale. La legge regionale in esame, impedendo ai proprietani di immobili siti nella Regione Friuli-Venezia Giulia (proprietari non necessariamente in essa residenti) l'accesso alla sanatoria straordinaria degli abusi edilizi durante la pendenza del processo costituzionale, arreca pregiudizio all'interesse dello Stato e degli enti «a finanza derivata» al conseguimento degli introiti «da condono» previsti dal bilancio e dalla legge finanziaria dello Stato. Lo Stato potrebbe trovarsi costretto a sostituire i mancati o ritardati introiti con manovre di finanza straordinaria (per le quali del resto i parametri di Maastricht lasciano margini strettissimi) e con inasprimenti ulteriori della gia' pesante fiscalita', cosi' soffocando ogni speranza di «agganciare» la auspicata ripresa economica e rendendo problematica persino il rimanere all'interno di un contesto concorrenziale; oppure - in alternativa - ad operare «tagli» alla spesa pubblica sia corrente (compreso il «welfare») sia per investimenti. La scelta di ricorrere ad introiti «da condono» non e' stata voluttuaria o di tolleranza degli abusi; essa e' stata imposta dalla bassa congiuntura e dalla distanza che, malgrado semisecolari progressi, ancora separa il nostro Paese dalle economie piu' solidamente strutturate. Inoltre, la legge in esame arreca pregiudizio all'ordinamento giuridico della Repubblica per le considerazioni esposte dianzi nel prospettare i motivi di ricorso. Questa difesa si rende conto dell'esigenza (non solo processuale) di non impegnare codesta Corte nell'esame di istanze cautelari; e pero' istanze siffatte sono state formulate da Regioni ricorrenti avverso l'art. 32 citato. La sospensione ex art. 9, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131, e' chiesta solo per l'art. 1 della legge in esame.